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La politica dell’autonomia.
di Ezequiel Adamovsky
Parte 1: Due ipotesi su una nuova strategia per una politica dell’autonomia
Il mio scopo con questo articolo è presentare alcune ipotesi per una strategia dei movimenti di emancipazione anticapitalisti. L’idea è ripensare le condizioni di una politica efficace, che abbia la capacità di cambiare radicalmente la società in cui viviamo. Anche se non avrò lo spazio per analizzare casi concreti, queste riflessioni non sono solo uno sforzo “teorico”, ma si originano dall’osservazione di una serie di movimenti di cui ho avuto la fortuna di far parte – il movimento delle assemblee di quartiere in Argentina, alcuni processi nell’ambito del Forum sociale mondiale ed ad altre reti globali – o che ho seguito da molto vicino negli anni passati – il movimento dei piqueteros (disoccupati), sempre in Argentina, e gli zapatisti in Messico.
Dal punto di vista della strategia, gli attuali movimenti di emancipazione si possono trovare in due situazioni (schematicamente). La prima è quella in cui riescono a mobilitare una grande quantità di energia sociale a favore di un progetto politico, ma lo fanno in maniera da cadere nella trappola della “politica eteronoma”. Con “eteronomo” intendo quel meccanismo politico per cui tutta quell’energia sociale finisce incanalata in maniera da beneficiare la classe dominante o, almeno, da minimizzarne la portata radicale. È questo il caso del Partito dei lavoratori di Lula in Brasile e anche di altri movimenti sociali (per esempio, alcune sezioni del movimento femminista) che si sono trasformati in organizzazioni di tipo lobbistico con un solo obiettivo e senza connessioni con altri movimenti radicali di respiro maggiore.
La seconda situazione è quella dei movimenti e dei collettivi che rigettano ogni contatto con lo stato e con la politica eteronoma in generale (partiti, lobby, elezioni, ecc.) solo per ritrovarsi ridotti a piccoli gruppi identitari senza molte speranze di avere un impatto in termini di cambiamento radicale. È questo il caso, per esempio, di alcuni dei movimenti di disoccupati in Argentina ma anche di molti piccoli collettivi anticapitalisti in tutto il mondo. Il costo della loro “purezza” politica è l’incapacità di connettersi a più ampi settori della società.
Per essere esatti, questo è soltanto un quadro schematico: esistono molti esperimenti qua e là e visioni strategiche che riescono a sfuggire a queste situazioni senza uscita (l’esempio più noto essendo quello degli zapatisti con la loro “Sesta dichiarazione”). Le riflessioni che presento qui mirano a contribuire a queste esplorazioni.
Ipotesi 1: sulla difficoltà della sinistra di pensare il potere (o, quale verità si può riconoscere nel sostegno delle persone alla destra).
Mettiamoci di fronte ad una domanda scomoda: perché, pur rappresentando la sinistra una scelta migliore per l’umanità, non riusciamo quasi mai ad ottenere il sostegno delle persone? O al contrario, perché spesso le persone votano a favore di scelte chiaramente anticapitaliste – a volte finanche candidati di destra? Cerchiamo di sfuggire alle risposte semplicistiche e paternalistiche come “le persone non capiscono”, “il potere pervasivo dei media”, e via dicendo. Questo genere di spiegazioni ci conferisce una superiorità che non meritiamo, né è di alcuna utilità politicamente parlando. Chiaramente il sistema ha un formidabile potere di controllare la cultura in maniera tale da contrastare le tendenza radicali, ma non possiamo limitarci a cercare una risposta solo qui.
Escludendo fattori circostanziali, la capacità di attrarre della destra risiede nel fatto di presentarsi come (e in certa misura esserlo) forza d’ordine. Ma perché l’ordine dovrebbe essere attrattivo per le persone che non appartengono alla classe dominante? Viviamo in un tipo di società che poggia su (e rinvigorisce) una tensione costitutiva, paradossale. Ogni giorno diventiamo maggiormente “decollettivizzati”, cioè sempre più individui atomizzati, isolati e privi di legami forti l’uno con l’altro. Ma, allo stesso tempo, nella storia dell’umanità non c’è mai stata altrettanta interdipendenza nel produrre la vita sociale. Oggi la divisione del lavoro è così profonda che ogni minuto, anche senza che ce ne rendiamo conto, ciascuno di noi fa ricorso al lavoro di milioni di persone in tutto il mondo. Nel sistema capitalistico, in maniera piuttosto paradossale, le istituzioni che rendono possibile ed organizzano questo alto livello di cooperazione sociale sono le stesse che ci sep
arano gli uni dagli altri, e che ci rendono individui isolati privi di responsabilità nei confronti degli altri. Sì, sto parlando del mercato e degli stati. L’acquisto ed il consumo di merci, ed il voto per i candidati alle elezioni, non coinvolgono una responsabilità, perché sono azioni compiute da individui isolati ed in solitudine.
La nostra interdipendenza è tale che la società (globale) richiede, come mai prima d’ora, che ognuno non si comporti come non ci si aspetta che faccia. È vero, abbiamo la libertà di vestirci come un clown, se vogliamo, ma non possiamo fare nulla che modifichi il corso “normale” della società. Perché oggi, un piccolo gruppo di persone o finanche una singola persona ha molte più chance che in passato di modificare questo corso normale, se lo volessero. Come mai prima, una singola persona ha la possibilità di influire sulla vita di milioni di persone e di produrre il caos. Perché è vero questo più oggi che in passato? Prendiamo un esempio: se un contadino nella Francia del XVII sec. decideva di non arare la sua terra, non metteva a rischio la sopravvivenza dei suoi vicini, ma solo la propria. Immaginiamo che fosse arrabbiato o pazzo e si fosse messo a fare qualcosa per impedire ai suoi vicini di fare il raccolto. In questo caso la comunità si sarebbe occupata rapidamente di lui, e nel caso peggiore avrebbe danneggiato pochi dei suoi vicini. Spostiamoci rapidamente in un qualsiasi paese del XXI sec. Se tre operatori del sistema di sicurezza di una metropolitana decidessero di non lavorare (o di fare casino con il sistema solo per divertimento), oppure se una persona importante nel mercato azionario cominciasse a mentire sulle prospettive di AOL, produrrebbero effetti sulle vite ed i lavori di migliaia di persone, senza che queste neppure sappiano la ragione del loro incidente, o della perdita del lavoro. Il paradosso è che l’individualismo crescente e la mancanza di responsabilità di fronte agli altri rende più probabile che di fatto qualcuno sia disposto a causare problemi o danneggiare le vite e gli interessi di altre persone, anche senza averne alcuna ragione. Chiedete agli studenti di Columbine. La nostra mutua dipendenza per certi versi contrasta in maniera paradossale con la nostra realtà soggettiva di individui isolati e non responsabili.
In quanto persone che vivono in questa tensione costitutiva, avvertiamo tutti in qualche misura il desiderio della continuità dell’ordine sociale o delle nostre vite, a causa della vulnerabilità di entrambe. Inconsciamente sappiamo che dipendiamo dal fatto che gli altri facciano la cosa giusta; ma non sappiamo chi sono o come comunicare con loro. Sono vicini ma alieni allo stesso tempo. Questo è lo stesso desiderio innescato da centinaia film di successo la cui struttura narrativa ed i cui temi sono praticamente gli stessi. Una persona o un piccolo gruppo di persone mette a rischio la vita delle persone o la società – che sia a causa della cattiveria, dell’attitudine criminale, della pazzia, di strane ragioni politiche, a scelta – fino a che un intervento di forza ristabilisce l’ordine – un padre buono, Superman, la polizia, il presidente, Charles Bronson ecc. In quanto spettatori cinematografici possiamo trovare soddisfazione del nostro desiderio, ma è un benessere che dura
solo pochi minuti.
Proprio nei film, la capacità di attrarre della appello all’ordine della destra si basa sulla paura prodotta dalla maggiore possibilità di disordini catastrofici. Dal punto di vista di un individuo isolato, non fa differenza se il disordine è prodotto da un altro individuo per qualsivoglia ragione o da un collettivo progressista che lo fa in quanto parte di un movimento politico. Non fa differenza che sia un criminale, un pazzo, uno sciopero o un gruppo anticapitalista in una azione diretta: ogni qual volta ci sia timore di un disordine catastrofico e della dissoluzione dei legami sociali, gli appelli della destra all’ordine troveranno terreno fertile.
Non ha senso lamentarsene: quella paura fa parte della società in cui viviamo. E non è questione di atteggiamento: il sostegno popolare alle decisioni di destra non è dovuto dalla “mancanza di cultura politica” – ciò cui si potrebbe porre rimedio semplicemente dicendo alle persone cosa pensare in maniera più convincente. Non ci è “errore” nel sostegno popolare alla destra: se vi sono ragioni per credere che la vita sociale sia in pericolo (e di solito ve ne sono), la scelta a favore di un “ordine” (di destra) è una decisione perfettamente razionale in assenza di un’altra migliore.
Ciò che sto cercando di sostenere è che vi sia una verità profonda da apprendere nell’attrattiva inestinguibile dell’appello a più “ordine”. È tempo di considerare che, forse, ciò che noi (la sinistra radicale) offriamo non è percepita come una opzione migliore per il fatto semplicissimo che non lo è. La sinistra possiede la migliore diagnosi di ciò che è sbagliato in questa società. E ora possiede anche una proposta concreta di una visione di cosa dovrebbe essere una società migliore. Ma che dire della domanda: come arrivarci? Quando arriviamo a questo punto abbiamo o l’opzione della presa di potere da un partito leninista tradizionale (mi spiace, ma questo non è meglio né desiderabile, per me), o delle generalizzazioni grottescamente irrealistiche e vaghe.
In entrambi i casi invitiamo a distruggere l’ordine sociale attuale (che non è inevitabilmente necessario) in maniera da poter costruire qualcosa di migliore. La nostra cultura politica fin qui è stata soprattutto fatta di distruzione, critica, attacco del presente per il bene del futuro, piuttosto che della costruzione e creazione di nuove forme efficaci di cooperazione e solidarietà. Poiché viviamo nel futuro e disprezziamo il presente, e siccome non ci preoccupiamo di spiegare come proteggeremo la vita delle persone dal disordine sociale catastrofico nel tentativo di costruire un nuovo ordine sociale, è normale che le persone percepiscano (giustamente) le nostre promesse come vaghe e inaffidabili.
Per ragioni che non ho qui lo spazio di approfondire, la tradizione della sinistra ha ereditato grandi difficoltà quando si tratta di pensare l’ordine sociale e, perciò, di mettersi in relazione alla società nella sua totalità. In generale la sinistra non sa pensare al potere come a qualcosa di immanente alla vita sociale. Tendiamo a pensare che sia una cosa esterna, una sorta di parassita che colonizza la società “dall’esterno”. Invece, tendiamo a pensare alla società come ad un tutto cooperativo che prima da indipendentemente da quella entità esterna. Da qui l’idea marxista che lo stato, le leggi ecc. non sono altro che la “superstruttura” di una società che si definisce primariamente nell’ambito economico. Da qui anche l’atteggiamento di alcuni anarchici che tendono a considerare tutte le regole (ad eccezione di quelle liberamente accettate su base individuale) come qualcosa di esterno ed oppressivo, credendo allo stesso tempo che lo stato possa essere semplicemente distru
tto senza costi per una società che – credono – è già “completa” ed esiste sotto il dominio dello stato. Da qui anche la distinzione proposta da alcuni anarchici tra potere come “potere su” e potere come “potere-di-fare” (la possibilità di fare), come se fosse una lotta tra due parti indipendenti e chiaramente distinguibili – una buona, l’altra cattiva.
Ciò che conta alla luce dei nostri obiettivi qui è capire che da tutti e tre i casi summenzionati discende una visione strategica (e anche una certa “cultura militante”) che si basa su un atteggiamento di pura ostilità e rifiuto dell’ordine sociale, delle leggi e di tutte le istituzioni. Mentre alcuni marxisti rifiutano l’idea che si possa creare un ordine per l’ordine dopo la rivoluzione, alcuni anarchici ed autonomi credono che la società possieda già un “ordine” proprio pronto a fiorire non appena ci sbarazziamo di tutto il carico delle istituzioni politico-legali.
Può darsi che in passato avesse senso pensare al cambiamento sociale come, anzitutto, un lavoro di distruzione dell’ordine sociale – non voglio discutere di questo ora. In ogni caso la situazione attuale rende quella scelta strategica del tutto irrealizzabile. Perché oggi non esiste alcuna società “al di sotto£ dello stato e del mercato. Ovviamente esistono molti collegamenti sociali e forme di cooperazione che hanno luogo sotto di essi, ma i legami sociali principali che organizzano e producono la vita sociale sono oggigiorno strutturati per mezzo dello stato e del mercato. Lo stato-mercato ha già trasformato la vita sociale in maniera che non esista “società” al di fuori di sé. Cosa rimarrebbe se facessimo smettere di funzionare il mercato e lo stato con la bacchetta magica? Certamente non una umanità liberata, ma un caos catastrofico: raggruppamenti più o meno deboli di individui decollettivizzati qua è là e la fine della vita sociale.
Da ciò segue che, se adottiamo una strategia politica di cambio radicale che è completamente “esterna” ai mercati e allo stato, scegliamo una strategia che è anche, per la stessa ragione, “esterna” alla società. In altre parole, ogni politica di emancipazione che si presenti esplicitamente – nel suo programma – o implicitamente – nella sua “cultura militante” o nel suo “atteggiamento” – come qualcosa di puramente distruttivo (o che offre solo vaghe promesse di ricostruzione dell’ordine sociale dopo la distruzione di quello attuale) non riuscirà mai ad attrarre alti numeri di aderenti. Ciò si deve al fatto che gli altri percepiscano (correttamente) che quel genere di politica mette a rischio la vita sociale attuale senza avere molto da offrire. Chiediamo alle persone di avere fiducia in noi e buttarsi nel vuoto, ma le persone sanno (ed hanno ragione) che la complessità della nostra società è tale che quel rischio non si possa correre. In conclusione, le persone non hanno fiduc
ia nella sinistra e hanno buone ragioni di non farlo.
Vorrei suggerire che dobbiamo ripensare la strategia prendendo in considerazione questa verità fondamentale: le regole e le istituzioni che rendono possibile ed organizzano l’oppressione sono, allo stesso tempo, le regole e le istituzioni che permettono ed organizzano la vita sociale in quanto tale. Sono immanenti e costitutive della società. Naturalmente si possono avere altre regole ed istituzioni, non oppressive. Ma al momento lo stato-mercato è diventato la spina dorsale dell’unica e sola vita sociale che abbiamo. Alla luce di ciò non possiamo continuare ad offrire una opzione politica che miri semplicemente a distruggere l’ordine sociale attuale. Al contrario, dobbiamo presentare una strategia (ed una “cultura militante”) che renda esplicito il cammino che vogliamo seguire per sostituire il mercato e lo stato con altre forme di gestione della vita sociale. Mentre lottiamo contro l’ordine sociale attuale dobbiamo creare e sviluppare, allo stesso tempo, istituzioni di nuov
o tipo che siano capaci di maneggiare la complessità delle funzioni sociali sulla scala appropriata.
In conclusione, nessuna politica di emancipazione può avere successo se sceglie una strategia che, implicitamente o esplicitamente, resta lontana dalla questione dei una gestione alternativa (ma presente e concreta) della vita sociale. Non esiste politica dell’autonomia o autonomia che non si prenda la responsabilità della gestione complessiva della società realmente esistente. In altre parole, non c’è futuro per ogni strategia che rifiuti di pensare alla creazione di forme alternative di organizzazione, qui ed ora, o che risolva quel problema con mezzi autoritari (come fa la tradizionale sinistra leninista) o sfuggendo nel sogno utopico ad occhi aperti e nel pensiero magico (come nel caso del “primitivismo”, della fiducia in una angelico ed altruistico “Uomo nuovo” o negli schemi astratti della democrazia diretta, e così via). Per evitare ogni schema astratto: non sto suggerendo che noi anticapitalisti dobbiamo trovare e dar vita ad una maniera diversa di gestire il capitali
smo (che sarebbe l’opzione tradizionalmente “riformista” o social-democratica). Ciò che sto cercando di sostenere è che dobbiamo creare e sviluppare i nostri propri strumenti politici, capaci di gestire la società attuale (evitando così il rischio di una dissoluzione catastrofica di ogni ordine sociale) mentre camminiamo verso un nuovo mondo libero dal capitalismo.
Ipotesi due: sulla necessità di una “interfaccia” che permetta il passaggio dal sociale al politico.
Cercherò di mostrare che, se vogliamo presentare una nuova strategia politica che sia allo stesso tempo distruttrice e creativa, dobbiamo esplorare e progettare in maniera collettiva una “interfaccia” autonoma che ci consenta di collegare i nostri movimenti sociali alla dimensione politica della gestione globale della nostra società. Non intendo con ciò appoggiare il pregiudizio tradizionale della sinistra tradizionale, secondo il quale l’auto-organizzazione sociale va bene ma la “vera” politica comincia solo nello spazio dei partiti e dello stato. Quando faccio riferimento al “passaggio dal sociale al politico” non riconosco alcuna primazia al secondo. Al contrario, credo che una politica autonoma debba essere fermamente ancorata nei processi di auto-organizzazione sociale ma che debba anche espandersi in maniera da “colonizzare” la dimensione politico-istituzionale. Cercherò di spiegare cosa dovrebbe essere una “interfaccia”.
In una società capitalistica il potere si struttura lungo due direttrici fondamentali, quella generale sociale (biopolitica) e quella politica in senso proprio (lo stato). Chiamo il piano sociale “biopolitico” perché, come ha mostrato Foucault, il potere è penetrato nelle nostre vite e nelle nostre relazioni quotidiane così profondamente da averle trasformate a sua immagine e somiglianza. Il mercato e le relazioni di classe ci hanno conformato in maniera tale che noi riproduciamo con noi stessi le relazioni di potere capitalistico. Ognuno di noi è un agente che produce il capitalismo. In altre parole, il potere non soltanto ci domina dall’esterno, ma anche dall’interno della vita sociale. Eppure, nella società capitalistica quella direttrice di potere non è sufficiente a garantire la riproduzione del sistema. Occorre altresì un piano che ho chiamato semplicemente “politico”: lo stato, le leggi, le istituzioni. Questa dimensione politica assicura il corretto funzionamento delle relazioni di potere biopolitiche: corregge la devianza, punisce le infrazioni, decide come incanalare la cooperazione sociale, affronta i problemi su grande scala e controlla tutto. In altre parole, la dimensione politica ha a che fare con la gestione globale della società; in una società di tipo capitalistico, il suo mezzo è lo stato.
Nelle attuali società capitalistiche, la dimensione sociale (biopolitica) e lo stato (la dimensione politica) non sono sconnessi. Al contrario, esiste una “interfaccia” che li unisce: le istituzioni rappresentative, i partiti politici, le elezioni ecc. Attraverso questi meccanismi (chiamati di solito “democrazia”) il sistema riceve una minima legittimazione in maniera che la gestione globale della società possa avere luogo. In altre parole, è questa interfaccia “elettiva” che assicura che la società in quanto tale accetti che un certo corpo di autorità prenda tutte le decisioni che ciascun altro deve accettare. Non c’è bisogno di dire che si tratta di un’interfaccia eteronoma, perché costruisce la sua legittimazione non per quel tutto cooperativo che chiamiamo società ma solo per il beneficio della classe dominante. L’interfaccia eteronoma incanala l’energia politica della società in maniera da impedire alla società di prendere le proprie decisioni ed essere autonoma (cioè, auto-organizzata).
Vorrei sostenere che la nuova generazione di movimenti di emancipazione che sta emergendo ha già fatto alcune esperienze straordinarie nel reame biopolitico, ma sta fronteggiando grandi difficoltà nell’ambito della dimensione politica. Esistono numerosi movimenti e collettivi in tutto il mondo che stanno mettendo in atto forme di lotta e di organizzazione che mettono in discussione l’oppressione ed il dominio capitalista. La loro biopolitica crea, anche se su piccola scala, relazioni umane di un tipo nuovo, orizzontali, collettive, che producono solidarietà ed autonomia e non competizione ed oppressione. Comunque, non abbiamo ancora trovato la maniera di tradurre questi valori in maniera che possano divenire il nucleo di una nuova strategia nella dimensione politica. Come abbiamo sostenuto prima, ciò è indispensabile per cambiare il mondo. In altre parole dobbiamo ancora sviluppare un’interfaccia di tipo nuovo, una interfaccia autonoma che ci permetta di articolare forme di cooperazione politica su scala più ampia, collegando i nostri movimenti, i nostri collettivi e le nostre lotte con la dimensione politica dove si svolge la gestione globale della società. Abbiamo rifiutato gli altri modelli che la sinistra tradizionale ha offerto, in particolare i partiti – siano d’avanguardia o costituzionali – ed i leader illuminati, perché abbiamo compreso che essi non erano altro che una interfaccia eteronoma (lievemente) diversa. Infatti, era un’interfaccia che, invece di colonizzare la dimensione politica con il nostri valori e i nostri modi di vita, operava in senso contrario, introducendo i valori della gerarchia e della competizione nei nostri movimenti. Perciò il rifiuto è stato salutare e necessario, ma dobbiamo continuare ad esplorare e a costruire la nostra interfaccia autonoma. Senza rispondere a questa domanda, tema che i nostri movimenti non stabiliranno mai forti legami con la società nel suo complesso e resteranno in uno stato di vulnerabilità costante. (L’esperienza della “altra campagna” degli zapatisti conoscerà forse sviluppi importanti da questo punto di vista).
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Parte due: l’interfaccia autonoma come Istituzione di nuovo tipo
Cosa dovrebbe essere un’interfaccia autonoma? Che tipo di nuova organizzazione politica, diversa dai partiti, ci permetterebbe di articolare su grande scala vaste sezioni del movimento di emancipazione? Come dovrebbe essere, volendo essere capace di una gestione globale della società, per diventare uno strumento strategico per l’abolizione dello stato e del mercato? Queste sono le domande che i movimenti sociali cominciano a porsi e che solo essi possono sciogliere. Le seguenti idee vogliono contribuire al dibattito.
Tesi 1: Sulla necessità di un’etica dell’uguaglianza.
Poiché non ha senso parlare di regole e istituzioni per essere umani astratti, non considerando i costumi e le tradizioni (cioè la loro cultura specifica), cominciamo con una tesi su una nuova cultura dell’emancipazione.
Uno dei limiti più seri della sinistra tradizionale è stato (ed continua ad essere) il rifiuto di considerare la dimenzione etica della lotta politica. In generale, sia in pratica che in teoria, l’atteggiamento della sinistra verso l’etica – cioè il principio che deve orientarci alle buone azioni permettendoci di distingere queste ultime da quelle cattive – consiste nel considerarla una questione meramente “espistemologica”. In altre parole le azioni politiche sono considerate “buone” se corrispondono ad una “verità” nota in anticipo. La questione di ciò che è eticamente bene o male è così ridotta al problema di una “linea” politica corretta o non corretta. In questo modo la sinistra spesso finisce con il rigettare implicitamente ogni etica dell’aiuto dell’altro (e voglio dire l’altro concreto, i nostri simili); invece la sinistra la rimpiazza con una certa ideologia-verità che si vuole rappresentante di un altro “astratto” (“l’Umanità”). Gli effetti concreti di questa assenza dell’etica si possono vedere nella nostra pratica concreta in casi innumerevoli in cui degli attivisti politici, altrimenti del tutto benintenzionati, manipolano e infliggono violenza ad altri in nome della “verità”. (Non c’è da sorprendersi poi se la gente comune preferisce tenersene alla larga).
Questo atteggiamento non è soltanto sbagliato per la sua mancanza di etica, ma anche perché è spesso inconsciamente elitista e impedisce una reale cooperazione tra uguali.Se pensate di possedere la verità non starete a “perdere” tempo ascoltando gli altri, né sarete disposti a negoziare sul consenso. È questa la ragione per cui una vera politica d’emancipazione deve basarsi su una erma e radicale etica dell’uguaglianza e della responsabilità nei confronti degli altri. Dobbiamo ancora fare molta strada in questo senso se vogliamo creare, diffondere ed incarnare una nuova etica. Fortunatamente molti movimenti stanno già lavorando in questa direzione. Lo slogan degli zapatisti “camminiamo alla velocità del più lento” non è altro che il capovolgimento della relazione tra verità ed etica, come stiamo qui proponendo.
Tesi due: l’orizzontalità ha bisogno di istituzioni (disperatamente).
Le nostre istituzioni di nuovo tipo devono essere “anticipatorie”, cioè devono incarnare i valori della società che vogliamo costruire.
Uno dei nostri maggiori problemi, rispetto al problema di ottenere nuove istituzioni, consiste in due convinzioni sbagliate (ma profondamente radicate): 1) che le strutture organizzative ed il potere cospirino di per sé contro l’orizzontalità e contro l’apertura dei movimenti e, 2), che ogni tipo di divisione del lavoro, di specializzazione e delega delle funzioni conduce ad una nuova gerarchia. Fortunatamente, i movimenti sociali in molte parti hanno cominciato a mettere in discussione queste convinzioni.
Qualsiasi persona che abbia partecipato ad un qualche tipo di organizzazione non gerarchica, anche una piccola, sa che, in assenza di un meccanismo che protegga la pluralità e stimoli la partecipazione, l’”orizzontalità” diventa rapidamente terreno propizio per la sopravvivenza del più adatto. Qualsiasi persona sa anche quanto sia frustrante e limitativo avere delle organizzazioni in cui ciascuno e tutti sono sempre costretti a riunirsi in assemblee per decidere su ogni singola questione del movimento – dalla strategia politica generale alla riparazione del tetto. La “tirannia della mancanza di struttura”, come è solito dire Jo Freeman, rende esausti i nostri movimenti, ne sovverte i principi e li rende assurdamente inefficienti.
Contrariamente alla convinzione diffusa, le organizzazioni autonome ed orizzontali hanno più bisogno di istituzioni di quelle gerarchiche, perché queste ultime possono sempre fare affidamente al volere del leader per risolvere i conflitti, assegnare i compiti ecc. Vorrei sostenere che abbiamo bisogno di sviluppare istituzioni di nuovo tipo. Con istituzioni non intendo una gerarchia burocratica, ma semplicemente un insieme di accordi democratici sulla maniera di funzionare, che siano stabliti formalmente e siano dotati della infrastruttura organizzativa che permetta loro di svolgere la loro funzione.
Ciò comprende:
. una divisione del lavoro ragionevole, che è indispensabile se vogliamo la cooperazione su larga scale. Se ciascuno è responsabile di tutto, allora nessuno dovrà rendere conto di nulla. Dobbiamo avere regole chiare riguardo le decisioni da prendere dal collettivo intero e quelle che possono essere prese da individui o gruppi minori. Questa divisione del lavoro, non c’è bisogno di dirlo, deve essere in sintonia con i nostri valori: le mansioni e le responsabilità devono essere distribuite in maniera che tutti abbiano una quota uguale di doveri emancipatori o ripetitivi e noiosi.
. forme “deboli” di delega e rappresentanza. Abbiamo ragione di pensare che i rappresentanti spesso “si sostituiscano” ai rappresentati e accumulino potere a spese del resto. Ma da ciò non segue che si possa avere cooperazione su grande scala senza una qualche forma di delega. La convinzione che si possa semplicemente convocare un’assemblea e praticare una (astratta) democrazia diretta ogniqualvolta si debba decidere o fare qualcosa non è altro che un pensiero magico. Dobbiamo sviluppare nuove forme di rappresentanza e di delega che garantiscano che nessun gruppo di persone diventi un corpo speciale di decisori staccato dal resto. Dobbiamo muoverci dai “leader forti” a facilitatori, che mettono tutta la loro capacità e conoscenza al servizio dell’organizzazione dei processi decisionali collettivi. A questo scopo occorrono regole e procedure chiare.
. una chiara delimitazione dei diritti del collettico e delle sue maggioranze da quelli degli individui e delle minoranza. La convinzione secondo la quale una organizzazione collettiva deve “trascendere” i bisogni ed interessi divergenti dei suoi membri è autoritaria e dannosa. Gli individui e le minoranza non possono, non devono, “dissolversi” nel collettivo. Dobbiamo accettare il fatto che in ogni collettivo umano resterà sempre una tensione tra il volere ed i bisogni delle persone e quelli del collettivo. Invece di negare o cercare di rimuovere questa tensione, un’organizzazione di tipo nuovo dovrà riconoscerla come cosa legittima e comportarsi di conseguenza. In altre parole, dobbiamo raggiungere degli accordi collettivi sui limiti tra i diritti degli individui e delle minoranze e gli imperativi collettivi. Ed abbiamo bisogno di istituzioni che proteggano i primi dai secondi e difendano le decisioni del collettivo dai comportamenti individuali inappropriati.
. un giusto e trasparente codice di procedura per la gestione dei conflitti, in maniera da risolvere gli inevitabili conflitti itnerni senza condurre al divisionismo e alla fine della cooperazione.
Tesi tre: un’organizzazione politica che “mimi” le nostre forme biopolitiche.
Le forme di organizzazione politica tendono a stabilire una relazione “minetica” rispetto alle forme biopolitiche. Cristallizzano meccanismi normativi ed istituzionali che, per così dire, “copiano” o “imitano” certe forme che sono immanenti all’auto-organizzazione sociale. Ciò non significa che siano “neutri”, al contrario, l’aspetto che assumono le organizzazioni politiche può dirigere la cooperazione sociale nel senso di rafforzare l’eteronomia (potere su) oppure favorire l’autonomia (poter fare). L’organizzazione politica-istituzionale-legale del capitalismo ì un buon esempio della prima situazione: la sua forma piramidale mima e rafforza allo stesso tempo la relazione di dominio verticare e centralizzato che ne è alla base.
Le nostre organizzazioni di nuovo tipo possono essere meglio pensare come una “imitazione” del modo di funzionamento delle reti cooperative bio-politiche. Cercherò di spiegarlo usando l’esempio offerto da internet. Il quadro tecnico di internet e la sua struttura a rete hanno fornito opportunità inattese per l’espansione della cooperazione sociale su una scala che non avevamo neppure immaginato prima. L’esistenza di ampi “comunità intelligenti” in internet, create spontaneamente dagli stessi utenti, è ben documentata. Queste comunità sono non gerarchiche e decentralizzate, però riescono ad apprendere ed agire collettivamente, senza il bisogno di gridare ordini. Queste comunità hanno raggiunto livelli notevoli di cooperazione.
Comunque, internet mostra anche tendenze in direzione opposta, verso la concentrazione dell’informazione degli scambi. Non mi riferisco al fatto che alcuni governi e aziende continuano a controllare importanti aspetti tecnici del web, ma alll’emergere di “centri di potere” come parte della vita stessa del ciberspazio. In teoria, in una rete aperta ogni dato punto può collegarsi ad ogni altro in maniera libera, non mediata. Invece noi tutti usiamo siti e motori di ricerca come Google, che allo stesso tempo facilitano la connettività – e quindi espandono le nostre possibilità di cooperazione ed il nostro poter fare – e centralizzano il traffico. In questo senso, siti come Google giocano un ruolo ambivalente: per un verso sono “parassiti” del web, dall’altro parte della sua architettura. Al momento gli effetti negativi della centralizzazione del trafficono non sono molto visibili, ma potenzialmente questa centralizzazione si può trasformare facilmente – e già sta avvenendo – in una forma di potere-su e di gerarchizzazione dei contatti all’interno del web. Si prenda ad esempio il recente accordo tra Google e Yahoo ed il governo cinese per censurare e controllare i cibernauti cinesi. Si prenda anche la possiblità di pagare Google per poter apparire con un certo rilievo nei risultati delle richerche. Questi esempi mostrano quanto sia facile che i più importanti siti restringano e/o incanalino la connettività.
Che fare allora dei siti come Google? Ci aiutano a trovarci ma il loro stesso uso assegna alle aziende un grande potere che si può facilmente usare contro di noi. Rispondo cone una battuta. La strategia della sinistra tradizionale direbbe che il partito deve “prendere Google”, rimuovere i suoi proprietari, distruggere ogni rivale (come Yahoo) e poi “mettere Google al servizio della classe lavoratrice”. E tutti conosciamo le conseguenze autoritarie ed inefficaci di queste politiche. Quale sarebbe invece la strategia di un libertario ingenuo? Quella forse di distruggere Google, Yahoo ecc. e fare in modo che non emergano altri siti di grandi dimensioni, tali da poter centralizzare il traffico. Ma il risultato sarebbe praticamente la distruzione del potenziale di internet e delle esperienze di cooperazione che il web rende possibili. In teoria potremmo ancora, ma sarebbe estremamente difficile trovarci. In assenza di opzioni migliori, ed in vista del collasso delle possibilità di cooperazione, finiremmo con l’arrenderci al primo uomo d’affari in pectore che ci offra un nuovo Google.
Quale sarebbe la strategia una una politica dell’autonomia del tipo che stiamo cercando di descrivere qui in un caso (piuttosto stupido) che stiamo discutendo? Partirebbe probabilmente dall’identificazione dei principali snodi della cooperazione via web e dei centri di potere-su (come Google) che sono prodotti dalla sua stessa vita. Dopo aver identificato le tendenze immanenti che potrebbero dar vita a forme di potere-su, la strategia di una politica dell’autonomia sarebbe la creazione di un’alternativa organizzativa che ci aiuti a svolgere i compiti di Google, a favore del nostro poter fare. Ciò sarebbe possibile inserendo ogni concentrazione necessaria di traffico in un quadro istituzionale che garantisca il non sovvertimento dei valori di emancipazione presenti nella “vita quotidiana (biopolitica) del web. Una simile strategia richiede la creazione di strumenti politico-istituzionali (strumenti che trascendano la possibilità del piano biopolitico proprio del web) che proteggano la rete dalle sue proprie tendenze alla centralizzazione e alla gerarchizzazione. Una strategia dell’autonomia non proteggerebbe il web impedendo queste tendenze, ma riconoscendole e assegnando loro un posto subordinato all’interno di un quadro istituzionale “intelligente” che le mantiene sotto controllo. La tesi relativa alla natura “mimetica” delle istituzioni di nuovo tipo rispetto alle forme biopolitiche si riferisce proprio a questo genere di operazioni istituzionali “intelligenti”.
Un modello organizzativo
Parte 3 (parte seconda , parte prima ). Come pensare una strategia autonoma in questo contesto? Chi dovrebbe farlo e in che modo? L’ipotesi di una “interfaccia autonoma” può servire a rispondere a queste domande.
Non c’è bisogno di dire che ogni strategia si deve sviluppare all’interno e per situazioni concrete. Le seguenti riflessioni non intendono essere una ricetta, ma solo un esercizio di immaginazione finalizzato all’espansione dei nostri orizzonti.
Un nuovo tipo di modello organizzativo
Mutatis mutandis, l’esempio dei problemi di internet può essere applicato ai movimenti per l’emancipazione nella loro globalità. Oggi esiste una rete lasca di movimenti sociali connessi a livello globale che, come parte integrante della propria vita, possiede anche loci di centralizzazione e di (certo) potere comparabili a Google. Il Forum sociale mondiale, le iniziative “intergalattiche” degli zapatisti, alcune Ong e finanche alcuni governi nazionali hanno contribuito ad espanderne la connettività e, perciò, le possibilità di rafforzare le sue capacità di cooperazione. Ma quella concentrazione è anche pericolosa in potenza per i movimenti, perché possono facilmente diventare la via del ritorno alla politica eteronoma.
Come pensare una strategia autonoma in questo contesto? Chi dovrebbe farlo e in che modo? L’ipotesi di una “interfaccia autonoma” può servire a rispondere a queste domande. Non c’è bisogno di dire che ogni strategia si deve sviluppare all’interno e per situazioni concrete. Le seguenti riflessioni non intendono essere una ricetta, ma solo un esercizio di immaginazione finalizzato all’espansione dei nostri orizzonti.
Abbiamo già sostenuto che un’organizzazione di tipo nuovo che possa agire da interfaccia autonoma deve avere una natura anticipatrice (cioè, deve essere in sintonia con i nostri valori) ed anche avere la capacità di “colonizzare” le strutture attuali degli stati in maniera da neutralizzare, rimpiazzare o inserirle in un quadro istituzionale diverso. In termini pratici ciò significa che la virtù fondamentale di una organizzazione di tipo nuovo risiede nella sua capacità di articolare forme di cooperazione sociale su grande scala che siano solide e non oppressive. Anche se tutto questo può sembrare nuovo la tradizione delle lotte d’emancipazione ha già sperimentato forme simili all’interfaccia autonoma. L’esempio più famoso è quello dei soviet durante le rivoluzione del 1905 e del 1917 in Russia. In quanto creazioni autonome dei lavoratori, i soviet emersero prima come corpi per la coordinazione del movimento degli scioperi. Ma nel corso della rivoluzione, e senza alcuna “piani
ficazione” preventiva, cominciarono a svolgere funzioni di “potere duale” o, per dirla nel linguaggio che abbiamo usato fin qui, di “gestione globale della società”. I soviet erano le assemblee dei “deputati” nominati nelle fabbriche o nei collettivi in numero proporzionale alla propria dimensione. Nel 1917 costituirono uno spazio aperto e molteplice all’incontro e alla delibera orizzontale di una varietà di raggruppamenti sociali – lavoratori ma anche soldati, contadini, minoranze etniche ecc. – con diverse inclinazioni politiche. A differenza dei partiti politici, che richiedono l’adesione esclusiva e sono in competizione l’uno con l’altro, i soviet erano uno spazio di cooperazione politica aperto a tutti. Inoltre, durante la rivoluzione si occuparono di problemi come l’approvvigionamento alimentare delle città, i trasporti pubblici, la difesa contro i tedeschi ecc. Il loro prestigio agli occhi delle masse veniva da due aspetti: “rappresentavano” l’interezza del movimento rivoluzionario in maniera anticipatrice ma offrivano anche una alternativa reale di gestione politica.
L’”interfaccia” dei soviet adottò diverse strategie nei confronti del potere nel corso del 1917: inizialmente “collaborarono” con il governo provvisorio senza farne parte; poi venne il tempo della “coalizione”, quando i soviet decisero di nominare alcuni ministro del governo; poi, nel mese di ottobre, decisero finalmente di sbarazzarsi dello stato e sostituirlo con un governo interamente nuovo fatto dai loro “commissari del popolo”. Durante quel processo la dinamica dell’auto-organizzazione dei soviet si era moltiplicata e centinaia di nuovi soviet erano emersi in tutto il paese, che confluirono nel congresso pan-russo dei soviet.
È vero, l’esperienza dei soviet era destinata a crollare sotto la leadership bolscevica, per ragioni che non posso discutere qui. Ciò che conta ai nostri scopi è l’esempio storico di una interfaccia autonoma che fu capace di articolare la cooperazione tra quei gruppi e quei settori che erano a favore della rivoluzione ma anche, allo stesso tempo, farsi carico della gestione globale della società.
Come possiamo immaginare una simile interfaccia adattata ai giorni nostri? Pensiamo ad una organizzazione pensata per essere, come i soviet, uno spazio aperto, cioè un’arena per la delibera da parte di tutti quei gruppi che mirano al cambiamento sociale (entro certi limiti, ovviamente). In altre parole, sarebbe un’organizzazione che non stabilisce in anticipo “cosa fare”, ma offre ai suoi membri lo spazio per deciderlo collettivamente. Immaginiamo altresì che una siffatta organizzazione emerga e si definisca come uno spazio plurale di coordinazione dei movimenti anticapitalisti, antirazzisti e antisessisti, e chiamiamola Assemblea dei movimenti sociali (Ams).
L’Ams è costituita da un portavoce per ciascuno dei collettivi accolti come membri (gli individui che vogliano parteciparvi devono prima riunirsi in collettivi). Come nel caso dei soviet, è l’assemblea che decide se accettare o meno nuovi membri. Uno dei criteri per l’ammissione sarebbe il conseguimento del più alto grado di molteplicità possibili, accettando collettivi in rappresentanza dei diversi gruppi sociali (lavoratori, donne, studenti, popolazioni indigene, lesbiche ed omosessuali ecc.) ma anche diversi tipi di organizzazioni (piccoli collettivi, grandi sindacati, Ong, movimenti, campagne, partiti ecc.). A differenza dei soviet, le organizzazioni maggiori non avrebbero diritto ad avere più portavoce ma avrebbero il diritto a più “voti”, proporzionalmente alla loro importanza relativa in seno all’assemblea. Per esempio il portavoce di un piccolo collettivo di arte politica avrebbe diritto a due voti, mentre il portavoce di un grande sindacato di metalmeccanici avrebbe diritto a 200 voti. La “capacità di voto” sarebbe attribuita dall’assemblea a ciascun membro in accordo ad una serie di criteri definiti preventivamente (e ovviamente, in maniera democratica). Così, l’Ams sarebbe capace di tener conto delle differenze in dimensioni, della traiettoria passata, del valore strategico ecc, secondo un’equazione che garantisca anche che nessun gruppo individuale possa avere la capacità di decidere unilateralmente o condizionare il processo decisionale. L’Ams cercherebbe di decidere sulla base del metodo del consenso o, almeno, della maggioranza qualificata, su questioni importanti. Se il voto fosse necessario, ogni organizzazione membro sarebbe libera di usare la propria “capacità di voto” nella maniera che preferisse. Per esempio, il sindacato di metalmeccanici potrebbe decidere di dare tutti i suoi 200 voti ad una proposta di azione diretta contro il governo, ma se il sindacato fosse diviso internamente sulla questione, potrebbe anche decidere di rappresentare l’opinione della minoranza dando 120 voti all’azione diretta e 80 contro. In questo modo il funzionamento dell’Ams non “costringerebbe” all’omogeneizzazione dell’opinione dei suoi membri (che di solito produce divisionismo).
Le decisioni importanti resterebbero sempre nelle mani di ciascuna organizzazione membro. Ciascuna sceglierebbe liberamente le prerogative dei propri portavoce. Alcune potrebbero preferire la delega della capacità di prendere tutte le decisioni, mentre altre potrebbero preferire una rappresentanza in senso più debole. In ogni caso, l’Ams metterebbe in atto meccanismi decisionali che permettano ad ogni organizzazione di avere a disposizione il tempo necessario per discutere preventivamente le questioni e dare al portavoce un mandato specifico su quel voto. Grazie ai mezzi elettronici sarebbe possibile anche esprimere le proprie posizioni ed i voti a distanza, se i portavoce non potessero essere presenti per qualunque ragione o se volessero seguire il dibattito e prendere una decisione in “tempo reale”.
Le decisioni dell’Ams non comprometterebbero l’autonomia di ciascun membro; l’Ams non si spaccerebbe per rappresentante esclusivo di tutte le lotte, né imporrebbe l’adesione esclusiva. Potrebbero esistere svariate organizzazioni come l’Ams attive allo stesso tempo e sarebbe nell’interesse di tutti cooperare all’interno di qualunque organizzazione che rappresenti una lotta valida.
L’Ams non avrebbe “autorità” in senso stretto, cioè leader, ma nominerebbe gruppi dedicati di facilitatori incaricati di svolgere specifiche funzioni, per esempio:
. ricevere e valutare le domande d’adesione ed esprimere una raccomandazione all’Ams circa l’opportunità di accettare la richiesta o no, con una certa “capacità di voto”.
. occuparsi di fundraising a di gestione finanziaria.
. fare il portavoce;
. visitare altre organizzazioni ed invitarle ad unirsi all’Ams;
. agire come rappresentanti dell’Ams di fronte ad altre organizzazioni politiche;
. occuparsi della gestione dei conflitti tra le organizzazioni membro, qualora sorgessero;
. organizzare una scuole di politica d’emancipazione.
. prendere decisioni tattiche in situazioni urgenti quando l’Ams non possa rispondere tempestivamente;
. disporre di un potere di veto sulle decisioni che contraddicono gravemente i principi fondamentali dell’Ams.
. portare avanti specifiche campagne decise dall’Ams (contro la guerra, contro il Wto ecc.)
L’incarico dei facilitatori avrebbe durata limitata e ruoterebbe tra le diverse organizzazioni, in maniera da evitare l’accumulo di potere di alcuni a danno di altri e le tipiche lotte di potere tra leader.
A cosa servirebbe una simile organizzazione? In dipendenza del contesto politico, potrebbe perseguire obiettivi diversi. Immaginiamo un contesto in cui l’Ams stia solo cominciando ad organizzarsi, con un numero ristretto di organizzazioni membro e perciò con ridotto impatto sociale. In tale contesto, l’Ams sarebbe una specie di “cooperativa politica”. Ogni membro contribuirebbe con una parte delle proprie risorse – contatti, esperienze, fondi, ecc. – ad alcuni obiettivi comuni (per esempio, organizzare una manifestazione, proteggere i membri dalla repressione dello stato, fare campagna contro l’Imf ecc.). Il lavoro di questa cooperativa contribuirebbe a rafforzare i legami tra i movimenti sociali all’interno della rete globale.
Immaginiamo ora un contesto più favorevole in cui, grazie al fatto di esistere già da tempo ed aver contribuito ad articolare forme di cooperazione utili per tutti e in sintonia con i propri valori emancipatori, l’Ams potrebbe attrarre varie organizzazioni. L’Ams quindi crescerebbe, fino al punto da incorporare un discreto numero di organizzazioni di tutti i tipi; inoltre la sua voce raggiungerebbe già tutta la società e molte persone ascolterebbero con interesse i suoi messaggi. In questo contesto, la “cooperativa politica” potrebbe essere utile per mobilitare le risorse in maniera da avere un impatto diretto sulle politiche dello stato. L’Ams potrebbe, per esempio, minacciare il governo con scioperi o azioni dirette per scongiurare la firma di un nuovo trattato di libero scambio. Qualora conveniente, l’Ams potrebbe chiamare al boicottaggio elettorale. Oppure l’Ams potrebbe decidere di presentare i propri candidati. Questi ultimi sarebbero semplicemente dei portavoce dell’Am
s, senza il diritto di decidere nulla da soli e senza il diritto alla rielezione. Se alcuni candidati fossero eletti, la “cooperativa politica” sarebbe riuscita a mobilitare le forze sociali a scopo elettorale e a redistribuire l’”utile” politico tra le organizzazioni membro. Poiché i candidati non agirebbero come individui o rappresentanti di specifiche organizzazioni ma in quanto portavoce dell’Ams, l’”accumulazione” politica andrebbe a vantaggio dell’Amc in quanto tale. Inoltre, alla luce della grande capacità di cooperazione dimostrata in questo modo, il prestigio dell’Ams aumenterebbe di sicuro agli occhi della società nella sua interezza.
Cerchiamo di immaginare ora un contesto più favorevole, in cui l’Ams abbia già una lunga esperienza di lavoro in comune, sia cresciuta e ne facciano parte migliaia di organizzazioni; che abbia perfezionato le sue procedure decisionali e la suddivisione interna di compiti, contribuito alla diffusione di una nuova cultura ed etica della militanza, raggiunto un metodo efficiente per la gestione dei conflitti interni e garantire che nessuna persona o organizzazione accumuli potere a danno degli altri; che i suoi dibattiti e le sue posizioni politiche incontrino grande interesse da parte della società. Supponiamo che la strategia del boicottaggio elettorale sia stata efficace e che i partiti ed il governo stiano perdendo la loro credibilità, o, in alternativa, che la strategia per “colonizzare” parti dello stato con la propria gente abbia avuto successo e che l’Ams controlli ampie porzioni del potere legislativo e una parte del potere esecutivo. In entrambi i casi, lo stato avrebb
e perso credibilità ed esisterebbe un vasto movimento sociale che richiede un cambio radicale. Vi sarebbero disobbedienza, scioperi ed azioni dirette ovunque. In questo caso la “cooperativa politica” potrebbe essere usata per preparare il successivo passo strategico, proponendosi come alternativa (almeno transitoria) per la gestione globale della società. La strategia in questo caso potrebbe variare: l’Ams potrebbe decidere di continuare a “colonizzare” le posizioni elettorali offerte dalla politica di stato, occupandone così porzioni sempre maggiori, o, in alternativa, l’Ams potrebbe sostenere una strategia insurrezionale, o una combinazione delle due.
Va da sé che questo è solo un esercizio d’immaginazione che mira semplicemente a fornire un esempio di come funzionerebbe una “interfaccia autonoma”. In questo caso ipotetico l’Ams ha agito si da strumento di cooperazione tra i movimenti di emancipazione sia come istituzione capace di gestire globalmente la società, qui ed ora. La sua strategia passa, anzitutto, per lo sviluppo di un modello istituzionale che “mima” i molteplici aspetti che strutturano le nostre reti di cooperazione (cioè, uno spazio aperto e plurale ma dotato di regole chiare), con un carattere “anticipatore” (orizzontale ed autonomo, espande il nostro poter-fare senza creare un potere-su). In seconda istanza, l’Ams dell’esempio ha sviluppato una strategia intelligente “leggendo” la configurazione dei principali legami di cooperazione della società attuale. In questo modo l’Ams ha identificato gli snodi in cui il potere-su ha un ruolo ambiguo (cioè, le funzioni svolte dallo stato che sono in una certa misura utili o necessarie) e offerto un’alternativa migliore e autonoma. A differenza dei partiti politici – compresi partiti leninisti – che “colonizzano” i movimenti sociali con le forme ed i valori della politica eteronoma, l’Ams fornisce un’interfaccia tra i nostri movimenti e lo stato che finisce con il “colonizzare” lo stato con le forme ed i valori dei movimenti.
Ancora una volta, ciò non intende essere il modello di una macchina politica perfetta. L’Ams non richiede degli essere “angelici”. Naturalmente esisterebbero conflitti interni e lotte per il potere di tutti i tipi e questa istituzione non risolverebbe né eliminerebbe la distanza intrinseca tra il sociale ed il politico. Una politica d’emancipazione continuerebbe ad essere, come oggi, un compito difficile, quotidiano, senza garanzie, con l’obiettivo di ampliare la nostra autonomia un giorno dopo l’altro. Il beneficio di una simile istituzione di nuovo tipo è che tutte le lotte, i conflitti e le tensioni sarebbe allo stesso tempo riconosciuti e controllati, così da non dover distruggere le possibilità di cooperazione.
Anche se si è trattato di un puro esercizio immaginario con molte limitazioni, spero che possa contribuire ad espandere i nostri orizzonti nel tentativo di rispondere alla domanda cruciale di una strategia per l’emancipazione: cosa fare.
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