Avremmo dovuto boicottare la Coppa del Mondo in Qatar? Probabilmente no. Poiché abbiamo sempre accettato di partecipare a competizioni sportive con regimi lontani dalla democrazia sociale ed elettorale, a cominciare da Cina (Olimpiadi 2008) e Russia (Mondiali 2018), il boicottaggio del Qatar sarebbe stato interpretato come un nuovo segno di l’ipocrisia degli occidentali, sempre pronti a dare lezioni a pochi piccoli paesi quando gli fa comodo, pur continuando a fare affari con tutti coloro che portano loro abbastanza soldi.
Anche se scegliamo di non boicottare, ciò non significa però che non dovremmo fare nulla. Anzi: bisogna agire sulla leva commerciale, che è molto più efficace di quella sportiva. È tempo che ogni Paese ridefinisca le condizioni del commercio con gli altri territori, secondo criteri universali di giustizia che si applicano equamente a tutti. Nel caso del Qatar sono state accertate violazioni dei diritti fondamentali, siano essi i diritti delle donne, i diritti delle minoranze sessuali o i diritti sociali e sindacali. Si dovrebbero introdurre dazi doganali del 10%, 30%, 50%, le sanzioni dovrebbero essere concentrate su determinate merci o sui trasferimenti di capitali, in modo che a pagarne il prezzo siano soprattutto le classi ricche e dominanti? Non spetta a me decidere qui: spetta alla deliberazione democratica farlo e posizionare il cursore al giusto livello.
Ciò che è certo è che l’argomentazione secondo cui non saremo mai in grado di raggiungere un accordo, e quindi non dovremmo fare nulla e limitarci ad applicare il libero scambio assoluto a tutti, è incredibilmente ipocrita, nichilista e antidemocratica. Per paura della democrazia, finiamo per sacralizzare il libero scambio e la libera circolazione dei capitali senza limiti, senza nemmeno cercare di sottomettere queste regole ad alcun obiettivo collettivo. Quando nel 2019 il regime cinese ha distrutto il pluralismo elettorale a Hong Kong davanti ai nostri occhi, l’unica reazione dell’UE è stata quella di proporre una nuova liberalizzazione dei flussi di investimenti a Pechino.
La seconda ragione per ridefinire il regime commerciale è ovviamente la crisi ambientale. Nel 2022 continueremo a commerciare con la Cina e il resto del mondo senza nemmeno tentare di applicare dazi doganali corrispondenti alle emissioni di carbonio legate al trasporto e alla produzione di questi beni, in flagrante contraddizione con gli obiettivi climatici. Lo stesso vale per il dumping fiscale e sociale: se un Paese esporta beni senza rispettare una base minima comune, allora non è solo legittimo ma essenziale imporre tariffe per ristabilire l’equilibrio.
La terza ragione è legata al fatto che ciascun Paese ha il diritto di scegliere una specializzazione produttiva e di tutelare i settori che ritiene strategici. L’esempio migliore oggi è quello delle batterie e delle auto elettriche. Dopo aver fatto lo stesso con i pannelli solari, la Cina sta sovvenzionando massicciamente le proprie aziende per assumere il controllo del settore. Gli Stati Uniti hanno seguito l’esempio. Solo l'Europa resta indietro, come nel caso del bonus francese di 6,000 euro per l'acquisto di un veicolo elettrico, che vale indipendentemente da dove viene prodotto, mentre il bonus statunitense di 7,500 dollari è riservato a batterie e veicoli prodotti negli Stati Uniti Stati.
Di fronte al previsto collasso sociale e industriale, cosa può fare un paese come la Francia? L’unica soluzione è che ciascun Paese stabilisca le proprie condizioni per un’ulteriore integrazione economica e commerciale, in termini di rispetto dei diritti fondamentali, lotta al clima e al dumping fiscale e protezione dei settori strategici. Tali condizioni devono includere tariffe e sussidi a seconda del luogo di produzione
Qualcuno resterà sorpreso: se la Francia adotta unilateralmente tali regole, non si tratta di una chiara violazione dei trattati europei firmati in passato? La risposta è più complessa. Parallelamente a qualsiasi azione unilaterale, sono necessarie proposte ambiziose di misure collettive, compresa una nuova forma di federalismo sociale. L’Europa deve essere al servizio del miglioramento sociale: i paesi che lo desiderano devono essere in grado di adottare insieme le ulteriori politiche commerciali, sociali e fiscali che sembrano loro appropriate, ma ciò non deve impedire a ciascun paese di adottare le proprie misure.
Per quanto riguarda le misure protettive unilaterali, il diritto europeo è più ambivalente di quanto sembri. L'articolo 3 del Trattato di Lisbona afferma che gli obiettivi dell'UE sono la democrazia, il progresso sociale e la tutela dell'ambiente. In che modo la distruzione di posti di lavoro industriali importando tutte le attrezzature dalla Cina, senza alcuna considerazione del danno sociale e delle emissioni di carbonio coinvolte, può servire a questi obiettivi? Alcuni sosterranno che la nostra prosperità dipende dal libero scambio, dimenticando che non è grazie alla Cina che il potere d’acquisto europeo è aumentato di dieci volte nell’ultimo secolo (il commercio cinese rappresenta, nella migliore delle ipotesi, solo una piccola percentuale di questo aumento). In ogni caso il dibattito dovrebbe essere politico, non giuridico. Il fatto che i governi del passato abbiano firmato trattati che costituzionalizzano il libero scambio, in un momento in cui si temeva la sovranità in Europa e le questioni attuali venivano ignorate, non può portare le generazioni future a legare le mani a tempo indeterminato. Oggi più che mai la legge deve essere uno strumento di emancipazione e non di conservazione di posizioni di potere. È ripensando il federalismo e il protezionismo che si potrà superare la crisi attuale.
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