L'anno scorso il presidente Jacques Chirac ha incaricato Régis Debray di studiare la situazione in Medio Oriente. Il 15 gennaio 2007 Debray ha inviato alle autorità francesi il seguente documento sulla Palestina. Si tratta di una chiave importante per comprendere una lunga deriva politica i cui risultati sono ormai evidenti.
Dennis Ross, ex inviato degli Stati Uniti in Medio Oriente, aveva ammesso già nel 2000 che negli accordi di Camp David del 1978 erano stati commessi degli errori: il processo diplomatico non aveva tenuto sufficientemente conto degli sviluppi sul terreno, in particolare degli accordi. Il numero di coloni ebrei nei territori palestinesi è raddoppiato dal 1994 al 2000. Dopo gli accordi di Oslo del 1993 si sono stabiliti in Cisgiordania tanti israeliani quanti nei 25 anni precedenti. Mentre si discute nuovamente di una conferenza internazionale, sarebbe un errore continuare a ignorare la reale situazione. Non c’è bisogno di una commissione d’inchiesta. Il rapporto è già stato redatto più volte. Nessun conflitto al mondo è così documentato, mappato e registrato.
L'OCHA (Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari), un'agenzia delle Nazioni Unite, mantiene mappe aggiornate e dettagliate dei territori contesi, con fotografie, conteggi della popolazione e grafici. Ci vuole un'ora per guardarli, ma farlo potrebbe prevenire alcune delle infinite dichiarazioni di buone intenzioni.
Le mappe mostrano che le basi fisiche, economiche e umane per uno Stato palestinese vitale stanno scomparendo. La soluzione dei due Stati e il “giusto divorzio” dello scrittore israeliano Amos Oz (un territorio condiviso tra due sedi nazionali, una più piccola dell’altra e smilitarizzata ma sovrana, vitale e continua) sono ormai frasi vuote che appartengono al regno dei “potenziali”. stato. Alcuni potrebbero obiettare che non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno e che gli israeliani potrebbero aver vinto la battaglia territoriale (con solo il 22% della Palestina sotto mandato britannico ora fuori dal loro controllo), ma i palestinesi sicuramente vinceranno la battaglia demografica. Invocano la resilienza della popolazione locale di fronte al rullo compressore che sta lentamente ma inesorabilmente attuando il Piano Allon del 1968 e il “Piano stradale 1984” del 50.
Dagli sviluppi sul campo emerge chiaramente che:
o lo scopo del muro di sicurezza non è, come si crede, tracciare un confine che, per quanto illegale (poiché racchiude oltre il 10% della Cisgiordania), servirà almeno come linea tratteggiata per una futura frontiera internazionale;
o è vero (come ha detto Ehud Omert alla radio dell'esercito israeliano il 20 marzo 2006) che il confine strategico di Israele si trova sul Giordano: l'intera valle è stata dichiarata zona vietata e l'area intermedia è stata rosicchiata (il transito attraverso il fiume è possibile solo in determinati punti);
o le nuove tangenziali est-ovest costruite a scapito del vecchio asse nord-sud tracciano chiaramente un territorio in fase di annessione, con spazio per tre o quattro bantustan arabi (Jenin, Ramallah e Gerico). L’esaurimento delle risorse naturali in queste enclavi sovraffollate porterà alla fine a un’emigrazione di massa (gran parte dell’élite, soprattutto cristiana, se n’è già andata); E
o con la costruzione del muro di separazione, la continua ebraizzazione di Gerusalemme Est e la riconfigurazione del comune di Gerusalemme, le condanne ripetute ma puramente formali dell'ONU non hanno alcun effetto sulla presa di Israele sull'intera città (1).
C'è un enorme divario tra ciò che viene detto perché vogliamo ascoltarlo (ritiri locali, allentamento delle restrizioni di viaggio, rimozione di un checkpoint su 20, un cambio di tono) e ciò che viene fatto sul campo, cosa che non quello che voglio vedere (collegamento degli insediamenti, costruzione di ponti e tunnel, accerchiamento delle città palestinesi, esproprio di terre, distruzione di case). Alcuni descriverebbero questo divario come duplicità, altri come ambiguità. Lo sconfinamento graduale avviene fuori dalla vista delle telecamere, senza suscitare scalpore e senza un esplicito diktat coloniale. Nessuno sporge una denuncia formale, anche ammesso che riesca a scoprire cosa sta succedendo – difficile se non sei cresciuto a livello locale. Le mappe e i libri di testo scolastici israeliani si riferiscono alla Cisgiordania come Giudea e Samaria e, in seguito al recente rifiuto da parte della Knesset di una proposta di un ministro dell'istruzione laburista, l'obliterazione della linea verde del 1967 è ora un fatto compiuto legale.
Non si tratta semplicemente di un divario tra la situazione di fatto e quella di diritto. Riflette un metodo e una tradizione che risalgono ai primi giorni dell'Yishuv (2): la strategia del fatto compiuto. Questa strategia ha sempre dato i suoi frutti: lo Stato ebraico esisteva già prima di essere dichiarato e riconosciuto nel 1948, così come lo era l’esercito. Quello che abbiamo è un teatro a due palchi: sulla scena internazionale si sentono ripetuti discorsi vaghi e incoraggianti sul ritiro, la coesistenza e uno Stato palestinese, ma le cose che contano (insediamenti, strade, tunnel, falde acquifere) accadono sulla scena operativa della porta accanto, dove l’esito viene deciso senza che il pubblico lo veda.
Comprendendo come funziona l’opinione pubblica in una democrazia, i successivi governi israeliani di sinistra e di destra si preoccupano di somministrare regolarmente antidolorifici, piani di ritiro unilaterale o di smantellamento parziale degli insediamenti e annunci incoraggianti che sono sempre condizionati e non portano a nulla. I media vivono giorno per giorno, senza alcun tentativo di ricordare. Chi si ricorda ora che la road map (3) avrebbe dovuto essere "una soluzione definitiva e globale del conflitto israelo-palestinese entro il 2005"?
Il processo di Oslo non è rimasto solo lettera morta: con la rioccupazione militare delle zone A e B (4) nell'aprile 2002, ha fatto marcia indietro.
La frammentazione territoriale isola le autorità locali da ogni possibile amministrazione centrale palestinese e le une dalle altre, mentre la sistematica distruzione fisica delle istituzioni nazionali, delle infrastrutture palestinesi e dei leader politici da parte dell’esercito israeliano garantisce l’anarchia interna e la diffusione della violenza dei clan e delle bande: un caos senza fondo. Chiaramente la strada intrapresa non è quella della costruzione della nazione ma della decostruzione di ogni possibile governance oltre il muro di separazione. È la logica controparte di un processo di annessione trentennale che sarà approvato, quando sarà il momento, “in considerazione della nuova realtà sul terreno”.
In queste circostanze, la costante invocazione della road map da parte di tutte le parti ha più a che fare con l’autosuggestione che con uno sguardo sobrio alla coerente trasformazione della realtà. Questa realtà potrebbe non essere visibile da Ginevra, Parigi o New York, ma è immediatamente evidente a chiunque viaggi attraverso il paese dopo alcuni anni di assenza. È una terra divisa dalla forza militare, dove gli insediamenti israeliani non sono più forme su uno sfondo palestinese – le aree palestinesi appaiono invece come forme su uno sfondo israeliano solidamente infrastrutturato: una terra dove le riserve idriche sono confiscate e una restrizione temporanea agli spostamenti è molto vicino a un divieto permanente.
Alcuni potrebbero trarre conforto da queste idee:
o poiché è stato possibile ritirare gli insediamenti da Gaza, dovrebbe essere possibile nel prossimo futuro anche in Cisgiordania. Ciò significa ignorare il fatto che il ritiro di 8,000 coloni da un luogo di Gaza è stato presto seguito dall’insediamento non pubblicizzato di 20,000 coloni in un altro (Cisgiordania/Gerusalemme). Gaza non fa parte della terra promessa, mentre Giudea e Samaria ne costituiscono la spina dorsale. Sharon non ha nascosto il fatto che il ritiro ai margini sarebbe stato compensato dal rafforzamento della presenza israeliana altrove (438,000 coloni fino ad oggi, di cui 192,910 a Gerusalemme Est);
o lo smantellamento di quattro piccoli insediamenti nel nord (1,000 coloni) e la proposta concentrazione di 60,000 coloni nei blocchi più popolosi, Maale Adumim, Ariel e Gush Etzion, creeranno uno spazio libero. Ma con gli insediamenti collegati in una catena continua sotto la copertura del muro di sicurezza, la Cisgiordania è stata effettivamente tagliata in due. Il muro separa i palestinesi gli uni dagli altri ancor più di quanto li separi dagli israeliani.
Ciò che sta prendendo forma non è lo Stato palestinese annunciato e desiderato da tutti: è un territorio israeliano ancora inconsapevole che racchiude tre enclavi palestinesi autonome.
Tutte le parti hanno un interesse particolare a preservare la pretesa internazionale (5). Per gli israeliani, la storia viene creata sotto la copertura della finzione. Ai palestinesi non si può dire la verità: sono sotto occupazione ma sperano in una vita migliore e non nell’autodistruzione; un pio desiderio fornisce ai notabili, ai rappresentanti eletti e ai funzionari una vita, uno status, una dignità e una ragion d'essere. Gli europei hanno scelto di mettersi a posto la coscienza fornendo aiuti finanziari e umanitari per scusarsi della loro passività politica e cecità volontaria. Il pensiero degli americani deve più all'Antico Testamento che al Nuovo; il loro legame con Israele è un rapporto genitore-figlio al di là di ogni critica. Questa illusione condivisa di autoprotezione risulta dalla coincidenza di interessi opposti.
Questa situazione è sostenibile fino alla fine del secolo? Sembra dubbio, data l'ossessione di Israele per la sicurezza, che lo rende meno sicuro, e il suo disprezzo per le tendenze demografiche e religiose nella regione (6). Non potrebbe almeno un governo europeo trasmettere ai nostri amici israeliani che non siamo tutti ingannati dall’inganno, e che coloro che ingannano potrebbero non essere le prime vittime – ma saranno sicuramente le ultime? __________________________________________________________
Régis Debray è uno scrittore e filosofo, presidente onorario dell'IESR (Istituto Europeo di Studi Religiosi), Parigi
(1) Cfr. Dominique Vidal e Philippe Rekacewicz, "Jerusalem: which very own and golden city?", Le Monde diplomatique, edizione inglese, febbraio 2007.
(2) Termine ebraico utilizzato dal movimento sionista prima della creazione dello Stato di Israele per designare gli abitanti ebrei della Palestina e i nuovi immigrati.
(3) La road map, una proposta per porre fine al conflitto israelo-palestinese, è stata adottata dal Quartetto (ONU, USA, UE e Russia) il 30 aprile 2003.
(4) I territori palestinesi comprendono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza (45 km di lunghezza e 10 km di larghezza). Gli accordi di Oslo li divisero in tre zone:
– Zona A comprendente, dal 1994, Gaza e le città di Gerico, Jenin, Qalqilya, Ramallah, Tulkarem, Nablus, Betlemme (Hebron è stata oggetto di un accordo separato nel gennaio 1997), nella quale l’Autorità Palestinese ha giurisdizione civile e di polizia poteri; – Zona B comprendente le restanti aree della Cisgiordania, in cui l’Autorità Palestinese ha giurisdizione civile ma condivide la responsabilità della sicurezza interna con l’esercito israeliano;
– Zona C che comprende gli insediamenti israeliani stabiliti in Cisgiordania, Gaza (da allora smantellati) e Gerusalemme Est, che rimangono sotto il controllo dello Stato ebraico.
(5) Cfr. Alain Gresh, 'Palestinewred', Le Monde diplomatique, edizione inglese, luglio 2007.
(6) Cfr. il rapporto (PDF) presentato al Segretario generale delle Nazioni Unite il 5 maggio da Alvaro de Soto, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente.
Tradotto da Wendy Kristianasen
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